“Tallone di ferro” di Giulia Cenci al Museo Novecento

Duel è un duello dialettico tra artisti internazionali e le opere della collezione permanente del Museo Novecento. Protagonista di questo nuovo appuntamento del ciclo è Giulia Cenci (Cortona, 1988), finalista al Maxxi Bvlgari Prize 2020. Nella mostra TALLONE DI FERRO, la giovane artista ha scelto di innescare un dialogo con la scultura in bronzo Leone di Monterosso – Chimera di Arturo Martini.

L’esposizione a cura di Eva Francioli e Sergio Risaliti, in mostra fino al 22 agosto, è dunque la rielaborazione in chiave moderna di un’immagine fantastica appartenente alla mitologia classica, nata dalla mente dei Greci e poi adottata da Etruschi e Romani, che tramandarono il mito della Chimera, un essere terrificante, con il muso di leone, il corpo di capra e la coda di serpente, ucciso dall’eroe Bellerofonte. Dopo la presentazione tre anni fa, in Sala Leone X di Palazzo Vecchio, della celebre Chimera di Arezzo, rinvenuta nel XVI secolo, e trasferita poi a Firenze da Cosimo I de’ Medici, il mostro ritorna a farsi vivo sotto le forme moderne inventate da Arturo Martini.

Ed è proprio con questi elementi ‘terribili’ e apotropaici che Giulia Cenci entra in dialogo, creando a sua volta macchine minacciose, risuscitando miti e personificazioni ctonie, cui appaiono delegate le angosce e inquietudini del profondo. Dopo un’attenta riflessione sull’architettura e la storia del complesso delle Ex Leopoldine, sede del museo, Giulia Cenci ha realizzato una serie di opere site-specific, invadendo lo spazio con creature ‘mostruose’ nate dalle rovine di macchinari industriali e agricoli. L’artista crea una sorta di ‘paesaggio-anatomia’ che si dispiega lungo una complessa catena di montaggio, un assemblage tridimensionale di forme e strumenti abbandonati e fuori uso. Sono costruzioni metamorfiche in cui parti meccaniche evocano o si mescolano a dettagli anatomici, come in una sorta di Frankenstein o chimera. Due enormi bracci meccanici, composti da frammenti di pezzi agricoli e di automobili, ridefiniscono lo spazio, costringendo il visitatore a un percorso obbligato.

L’installazione richiama alla mente conformazioni naturali e grandi scheletri di specie estinte, esseri primordiali o provenienti da un altrove biologico, generati da incroci e ibridazioni meticce tra natura e tecnologia. L’opera rivela anche una decisa critica al recente passato post-industriale, con il suo bagaglio di violenza e di carica distruttiva, evocata dai versi di Wystan Hugh Auden che recitano: “Nero fu il giorno in cui Diesel /concepì il suo truce motore che/ generò te, vile invenzione,/ più perversa, più criminale/ perfino della macchina fotografica,/ mostruosità metallica,/ afflizione e infezione della nostra Cultura,/ principale sciagura della nostra Comunità”.

Una critica, quella di Giulia Cenci, al progresso industriale e alla superpotenza tecnologica che si esprime attraverso un meccanismo a ritroso: mettendo in mostra le rovine della civiltà industriale, i reperti di un’agricoltura meccanicizzata, i cadaveri di una civiltà fallita, l’artista come novello demiurgo riassembla i pezzi raccolti in questo disastro, per restituire con essi vita a figure perturbanti, nelle cui forme e aspetto si palesa tutto il fallimento della società moderna.

 

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